Intervista a Sabrina Bonaiti e Marco Ongania / di Tiziana Altea

Lo scorso 21 marzo, giornata mondiale della poesia, il Teatro della Società di Lecco era strapieno all’anteprima del film documentario “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa. Antonia Pozzi (1912-1938)”. Per la regia di Sabrina Bonaiti e Marco Ongania, prodotto da Emofilm in collaborazione con Acel Service e Comune di Pasturo, è questo il secondo film dedicato alla poetessa e fotografa milanese. Se “Poesia che mi guardi” di Marina Spada si concentra sul senso e il ruolo – allora come oggi – della poesia, “Il cielo in me” di Bonaiti e Ongania va incontro a tappe cruciali della vita di Antonia. E lo fa passando da dentro, dal complesso e tormentato suo mondo interiore. Con immagini, metafore e tocchi leggeri che nulla tolgono alla profondità della giovane donna, alla sua ricerca a tutto tondo di autenticità, senso e amore. Di poesia, in versi e click fotografici, anche e forse tanto più a fronte della cognizione e del peso del dolore e delle sofferenze umane.
Ne “Il cielo in me” c’è tutto lo scorrere del cielo pozziano, dalle nuvole ai temporali al sole. Un cielo sopra la terra: quella che corre con le braccine in volo Antonia bambina (Isabella Di Giuda), quella in cui s’incanta, s’innamora e confonde, sino al gesto estremo, Antonia ragazza (Erika Redaelli).
Da segnalare, per la loro bellezza, le trasposizioni filmiche di alcune fotografie scattate dalla Pozzi e, tra gli inserti documentali, quello di Emilio Comici sulle rocce: un vero cammeo.
Di seguito l’intervista ai due registi.

 

Perché un docu–film su Antonia Pozzi?

Sabrina Bonaiti

Sabrina Bonaiti


spL’idea di fare un film documentario si è imposta subito alla nostra attenzione, quando ci siamo resi conto della ricchezza di documentazione scritta, fotografica e video presente nell’archivio Pozzi. Nei primi mesi di studio e ricerca, Angelo Sala (giornalista e scrittore lecchese che ha collaborato al progetto del film, scomparso nel novembre 2013. A lui è dedicato questo lavoro – ndr) ed io, abbiamo raccolto numerose interviste e testimonianze che ci hanno aiutato a ricostruire alcuni aspetti meno noti della vita di Antonia Pozzi. Abbiamo avuto la fortuna di venire a conoscenza di alcuni momenti dell’infanzia trascorsa a Pasturo, grazie al racconto di una compagna di giochi di Antonia, Lucia Castelletti.La biografia di Graziella Bernabò “Per troppa vita che ho nel sangue”, le opere curate da Suor Onorina Dino, i numerosi e approfonditi studi che hanno esplorato e sviscerato i molti interessi e aspetti della personalità di Antonia hanno rappresentato una bussola fondamentale che ci ha imposto una direzione precisa, dalla quale non ci siamo mai discostati. La vera motivazione è però più profonda e ha a che fare con una scelta filologica e stilistica ben precisa: volevamo essere fedeli il più possibile alla figura di Antonia Pozzi, senza inventare nulla, senza romanzare, senza interpretare. Le poesie, i diari, le lettere hanno dato corpo alla sceneggiatura. Le sue parole sono il vero filo conduttore, danno corpo alla “voice over”, la voce fuori campo che accompagna lo spettatore per l’intera durata del film. Il nostro intento è stato quello di  offrire allo spettatore un diario intimo, denso, palpitante e dolente, in cui le immagini spesso abbandonano l’intento descrittivo per diventare visioni, metafore senza luogo e senza tempo.sp
Marco Ongania

Marco Ongania


spPer diverse ragioni, non ultima la nostra terra di residenza, molto vicina alla Pasturo di Antonia. Poi, come spesso accade, ci sono le “coincidenze” di certe porte che si aprono… E se cogli l’attimo ti ritrovi in un progetto che pochi mesi prima non avresti immaginato.

Come avete proceduto per la ricostruzione documentale?

 M.O. Io mi sono occupato della parte più cinematografica e quindi ho raggiunto Sabrina in un secondo momento, in quanto occupato sul set di PapaJ23. Della parte di ricerca si è occupata Sabrina. Poi quando si è scelto di affrontare il lavoro con una forte componente di ricostruzione, allora ho suggerito di ridurre gli elementi visivi di documentazione durante il film e di inserirne diversi in coda. Per aumentare l’effetto della prova storica, la fedeltà dei luoghi e delle situazioni raccontate. sp
 S.B. Dopo uno studio piuttosto lungo delle opere di Antonia Pozzi e l’approfondimento dei numerosi studi a lei dedicati, abbiamo cominciato a intervistare testimoni e studiosi. Con Angelo Sala, abbiamo ascoltato i testimoni diretti e indiretti, ossia coloro che hanno conosciuto Antonia Pozzi personalmente, o che avevano ricordi dei genitori. Abbiamo raccolto lunghe interviste con gli studiosi: se solo in piccola parte sono poi rientrate nel film, tutte queste testimonianze, tuttavia, ci hanno permesso di andare a fondo, di comprendere i momenti di svolta, di cogliere i nodi complessi della personalità poetica e intellettuale di Antonia. Ma anche di sollevare un velo sulla sua affettività, sulla sua emotività. Desideravamo comporre un diario dell’anima e ogni piccolo dettaglio ci è stato utile, ogni testimonianza e ogni pagina scritta su Antonia preziosa.

 

Quali sono gli aspetti della Pozzi che avete voluto far risaltare di più. E perché?

 S.B. Antonia aveva una personalità estremamente complessa che è perfettamente rispecchiata nelle poesie, nei diari, nelle lettere e nella tesi di laurea su Flaubert. Più ci facevamo condurre dalle sue parole, più ci rendevamo conto delle molteplici sfumature della sua personalità. Leggendo “Parole” si sperimenta un saliscendi emotivo continuo. Vita e morte, gioia e dolore, amarezza ed estasi, tenerezza e nostalgia convivono, creando una dialettica interna tesa e continua. La vita di Antonia è stata caratterizzata da una ricerca instancabile di senso e di amore, e la poesia è stata lo strumento di questa ricerca, il mezzo per chiarificare a se stessa il groviglio dell’esistenza, il balsamo per attenuare il dolore, il canto supremo di gratitudine verso il creato. Il rapporto con la poesia è anch’esso contrastato e sofferto, perché Antonia non è per niente sicura della validità di quello che scrive: ci sono momenti in cui mette tutto in discussione, in cui sembra non crederci. Il confronto con l’ambiente culturale che la circonda non la aiuta. Pur sollecitata da molti stimoli intellettuali, in lei sono spesso i dubbi a prevalere. La tesi sull’apprendistato letterario di Flaubert la aiuterà a concepire la poesia come lavoro stilistico e artistico complesso e le poesie che scaturiranno a partire da questa fase saranno tra le più alte e compiute del suo corpus poetico. Anche se, nell’ultimo anno della sua esistenza, Antonia concepirà il progetto di un romanzo storico in ossequio al favore accordato dal professor Antonio Banfi alla prosa rispetto alla poesia.Ripercorrendo la formazione di Antonia mi sono imbattuta in autori da me amatissimi durante l’adolescenza e in temi su cui mi sono arrovellata appassionatamente anche dopo: la dialettica tra bene e male nelle opere di Dostoevskij, il dibattito tra arte e vita in Thomas Mann sono sempre stati un riferimento anche per me. Così come la ricerca dell’essenza, della semplicità, di una vita che vuole andare al midollo delle cose, l’amore per la povera gente, l’occhio di riguardo per gli umili: sono tutti aspetti che me l’hanno avvicinata ancora di più. sp
 M.O. Senza dubbio il doppio legame con la terra di Pasturo, eletto luogo dell’anima, di verità, dove tornare. Una delle mie immagini preferite è Antonia (Erika Redaelli) che diventa parte del paesaggio offrendosi nuda alla terra. È stata un po’ la nostra metafora di partenza.

 

Dopo il vostro film su Mary Varale – con cui peraltro avete inaugurato una serie di co–regie – di nuovo una donna e il suo amore per la montagna. Quali affinità e quali le differenze tra la Pozzi e la Varale?

 M.O. Quello della montagna e la donna è un tema che ricorre nelle due produzioni, ma sono amori molto diversi, uno viscerale e molto muscolare, l’altro inteso come luogo di elezione. A Sabrina piace raccontare di donne speciali, nutrendosi dei loro valori umani volti a diventare esempio. Allo stesso modo io mi diverto a dissacrare tutto ciò, affinché ritorni a una dimensione più miseramente comune. Un tira e molla che spesso porta i suoi frutti rivelando la contraddizione interiore dei personaggi analizzati.In quanto ad affinità e differenze tra la Pozzi e la Varale, secondo me prevalgono le differenze. Il periodo storico è confrontabile, ma le origini sono differenti. Anche il modo di affrontare la vita e le ostilità sembra essere agli antipodi. Mary è forte e decisa, al punto da sembrare sfacciata, Antonia crea la sua forza e la sua arte sulla propria fragilità. Due donne, due mondi:  se si fossero trovate si sarebbero, credo, completate. sp
 S.B. Mary Varale e Antonia Pozzi hanno scalato e frequentato la montagna nello stesso periodo storico e non è affatto escluso, anche se non ne abbiamo le prove, che si possano essere incontrate. Mary Varale aveva portato il grande Emilio Comici sulla Grigna nell’estate del 1933 e aveva alle spalle una lunga frequentazione delle montagne lecchesi, insieme al marito Vittorio Varale, anche negli anni precedenti. Difficile credere che l’immagine vivace di Mary Varale, con il suo inseparabile giubbetto rosso e le leggendarie imprese di cui si era resa protagonista, possa essere sfuggita ad Antonia Pozzi. Potrebbero essersi incontrate in Grigna o sulle Dolomiti. Chissà, forse si scoprirà qualcosa nei prossimi anni, considerando che molti carteggi sono ancora da studiare e molti sentieri di ricerca devono ancora essere tracciati. Per Mary la montagna è una sfida sportiva, atletica, calcolata in gradi di difficoltà. Mary partecipa alla battaglia del sesto grado, riportando risultati strepitosi; scala dal 1924 al 1935 ben 217 cime, in cordata o in solitaria, quasi tutte in prima femminile. Per Antonia invece la montagna è esplorazione della natura, contemplazione. Le montagne sono madri, custodi di saperi ancestrali, fonte di ispirazione poetica. Anche lei segue le attività del CAI (Club Alpino Italiano – ndr) sin da giovanissima e si cimenta con la scalata, più tardi, sotto la guida di Emilio Comici. Quindi l’approccio alla montagna da parte delle due donne  è diverso. Ad accomunarle, invece, secondo me, è il grande amore per la montagna inteso come modo di essere.  La montagna è il luogo della libertà, in cui convenzioni sociali e barriere culturali vengono meno, in cui si può finalmente lasciare a casa il proprio abito buono e dimenticarsi della propria posizione sociale. Negli anni Venti e Trenta del Novecento andare in montagna per una donna non era affatto scontato. E per due “signore”, come erano loro due, la montagna poteva anche rappresentare una sfida e un modo diverso di vivere il modello femminile allora dominante.Mary Varale se ne andava in montagna vestita come una zingara, mangiava e beveva con gli uomini, fumava e godeva di questi momenti di suprema libertà. Antonia Pozzi condivide con le guide alpine e con i compagni di avventura lo stesso gusto per la libertà, la semplicità e i modi schietti che accomunano coloro che vanno in montagna. Mary Varale lascerà il CAI nel 1935 e deciderà di non scalare mai più. Nel clima sociale stantio e soffocante degli anni Trenta, ha alzato la testa e non ha esitato a schierarsi contro le istituzioni e i favoritismi di regime. Antonia Pozzi, che era amica della famiglia ebrea dei Treves, che scriveva poesie contro la guerra imperialista d’Eritrea e contro la guerra civile in Spagna, che frequentava compagni di università di credo socialista, soffrirà il fascismo del padre – Podestà a Pasturo –, ancora di più dopo l’emanazione delle leggi razziali nel 1938.
Credo che, come ulteriore elemento di vicinanza, una grande fragilità abbia accomunato Mary ad Antonia. L’incapacità di far fronte alle grandi delusioni della vita che tutti sperimentiamo, prima o poi. Mary Varale dopo la negazione della Medaglia al valore atletico da parte del Coni se ne andrà via, abbandonando la montagna per sempre e lasciandosi poi consumare da una lunga malattia degenerativa. Antonia Pozzi si congederà dalla vita nel 1938, per tante e diverse delusioni, come lei stessa scrisse nella lettera testamento lasciata ai genitori.

 

Pasturo, un paese intero coinvolto. Raccontateci.

 S.B. Pasturo è stato per Antonia il paese dell’anima. Amava tutto di quel paese: le persone innanzitutto, semplici e povere, i bambini, i suoi vicoli, le fontane, i prati, lo studiolo di villa Pozzi in cui poteva riordinare i suoi pensieri. Per lei tornare a Pasturo era tornare al nido.La cosa straordinaria che è successa a me, a Marco e, credo, a tutta la troupe è stata quella di essere accolti nella comunità di Pasturo con un affetto, un calore e un  entusiasmo contagiosi. Abbiamo condiviso con gli abitanti di Pasturo, con i bambini, giornate piene di gioia. Abbiamo sentito la fiducia, il sostegno, l’amicizia. Decine di persone si sono presentate a teatro durante il casting organizzato da Gigi Orlandi, regista di talento e di grande esperienza che dirige la compagnia teatrale del posto. In una sera avevamo già i protagonisti e le comparse. Tutti si sono dati da fare per recuperare vestiti e oggetti, per allestire le bancarelle del mercatino, per mettere in scena la raccolta del fieno e tanti altri momenti di vita contadina che Antonia Pozzi aveva immortalato nelle sue foto.È stato naturale anche per noi innamorarci di Pasturo. E credo che tutto questo amore sia entrato nel film: amore per la gente semplice e generosa che abbiamo conosciuto e frequentato, per i bambini che numerosissimi hanno preso parte al film, per i luoghi ancora identici e riconoscibili, per quell’essere Pasturo ancora un paese di montagna che ha conservato il senso e il valore della comunità. Riguardando le scene girate a Pasturo mi commuovo ancora… Ritrovo dentro di me una tenerezza particolare verso quei volti, un affetto forte verso questo paese. sp
 M.O. Pasturo ci ha accolto. Questa è la verità e il piacere più grande. Abbiamo ricevuto sostegno su ogni fronte. Molti abitanti hanno partecipato come comparse, hanno rivissuto con noi i momenti descritti dalle fotografie di Antonia. Abbiamo vissuto momenti di comunità e convivialità così spontanei e genuini come non ricordavo da tempo. Forse non è proprio un caso se Antonia Pozzi ci tornava così volentieri.

 

I luoghi di Antonia sono anche La Zelata di Bereguardo e le periferie milanesi. Luoghi che sono anche nodi esistenziali.

 M.O. Luoghi che sono riflessione e presa di coscienza. Anche durante le riprese è sorto un certo rispetto aggiunto nei confronti del luogo e della situazione. Rispetto per una intimità che si stava forse sfiorando. Il dialogo tra la nonna Nena e Antonia è nato quasi spontaneamente, improvvisato. Solo lo  “stop” registico ha, suo malgrado, messo fine a una intesa conquistata. sp
 S.B. Sì, la montagna e la pianura sono luoghi fisici precisi che fanno parte anche del paesaggio affettivo interiore di Antonia. La Zelata di Bereguardo è un luogo molto caro ad Antonia perché la pianura, il Ticino, la tenuta di famiglia rimandano all’amatissima nonna materna Nena. Nel film abbiamo voluto condensare questo rapporto, così importante per Antonia, in una scena, una delle poche recitate, in cui le bravissime Erika Redaelli (Antonia Pozzi) e Annunziata Orlandi (la nonna Nena) parlano della raccolta del fieno. Qui, tra le braccia di questa nonna dolcissima, Antonia trovava il conforto, la tenerezza e la comprensione di cui aveva bisogno.Le periferie milanesi Antonia le scopre grazie a Dino Formaggio, un suo compagno di università, di origini operaie e di simpatie socialiste. È lui che la inizia a questo ambiente, che la introduce, insieme a Lucia Bozzi, alla conoscenza di una realtà dura come quella della Casa degli sfrattati di Via dei Cinquecento. L’impatto con questa realtà ha dato vita ad alcune tra le poesie meglio riuscite di Antonia.Anche la conoscenza delle periferie, in Antonia, passa attraverso l’emozione, la carne, gli sguardi, per poi diventare pensiero e parola. Nella scena che abbiamo dedicato alla visita di Antonia alla casa degli sfrattati, Antonia è solo sguardo e gesto.

 

L’amore per Antonio Maria Cervi, Remo Cantoni e Dino Formaggio pare essere reso nel vostro docu–film con pennellate leggere. Soprattutto i primi due. Senza togliergli valore, ma volendolo inquadrare nel senso più complessivo di una vita.

 S.B. È vero, nel film sembrano quasi delle comparse. E la scelta è voluta, perché già nella fase di scrittura della sceneggiatura avevo l’esigenza di ridurre all’osso la biografia esteriore di Antonia, per valorizzare il più possibile i passaggi interiori della sua vita. Così ho dato più spazio alle parole di Antonia, a quelle pagine dei diari o delle lettere in cui lei scrive direttamente di Antonio Maria Cervi, di Remo Cantoni e di Dino Formaggio. A ognuno di questi amori, abbiamo accostato una poesia di Antonia. “Il cielo in me” è stata scritta da Antonia pensando al suo primo amore, Antonio Maria Cervi. “Tempo” è stata scritta nel periodo del suo secondo amore, ed è probabilmente riferita proprio a Remo Cantoni, come ha scritto anche Graziella Bernabò nella sua rigorosa biografia su Antonia Pozzi. Le poesie delle periferie, così come molte pagine di diario che abbiamo riportato fedelmente, sono riferite all’ultimo amore, Dino Formaggio.Ho voluto, invece, riservare più spazio all’amico Vittorio Sereni, poeta e vero fratello spirituale di Antonia. sp
 M.O. Penso che ogni amore per Antonia fosse da vivere con intensità assoluta. Ma dandogli troppo spazio, come del resto verrebbe spontaneo, si correva il rischio di raccontare solo quello e di ridurre la poesia a reazione di evoluzioni passionali del cuore. Credo che la Poesia di Antonia Pozzi meriti un approccio più universale, più ampio. Gli amori di Antonia ci sono e restano fondamentali, ma come dici tu sono una parte di un tutto, di sentirsi vivi.

 

L’angelo visto da Antonia è stato da voi reso con Antonia bambina. Da dove e perché questa soluzione?

 M.O. “Il cielo in me” si appoggia su un lavoro di ricerca e contatti che ci hanno aiutato a capire meglio Antonia. Tutto ciò che è descritto voleva essere rispettoso della documentazione fornita. Nei confronti dell’angelo avevamo la possibilità dell’interpretazione. Antonia che incontra Antonia ci è sembrata l’immagine poetica adatta per risolvere la situazione. Antonia che chiede aiuto e che per ritrovarsi ha bisogno di incontrare se stessa. Dal punto di vista fotografico, l’angelo, ogni qualvolta appare, è presentato attraverso una luce molto lieve più calda, ambrata, che svanisce a situazione finita. sp
 S.B. Nei diari, Antonia Pozzi descrive in modo molto dettagliato i suoi due incontri con l’angelo. Quel che colpisce subito è la fisicità di questa creatura, la sua tangibilità. È un angelo che la prende per mano, le fa salire di corsa le scale, la fa inginocchiare davanti alla finestra da cui vedeva la Grigna, la prende e la trascina davanti al cimitero di Pasturo. Antonia stessa scrive che non è una visione né un fantasma.Quindi sin dall’inizio sapevamo che sarebbe stato concreto, che non avrebbe avuto le fattezze di una visione fantasmagorica. E da lì sono partita, cominciando a immaginare le fattezze di questo angelo. Ho letto Rilke, come lo aveva letto Antonia. Per un certo periodo ho pensato che potesse essere così, poi mi sono accorta che la sua essenza immateriale non era quella descritta dalla Pozzi. Anche la biografia di Graziella Bernabò, riferita a questo nodo, va nella stessa direzione e così ho scartato definitivamente questa ipotesi.Poi ha cominciato a lavorarmi dentro l’immagine del bambino mai nato di Antonia. Quel bambino che lei avrebbe tanto voluto da Antonio Maria Cervi. E per un po’ ho coltivato questa idea. Ma non funzionava ancora, perché sarebbe stata comunque la proiezione di un rimpianto e di un volto mai conosciuto. Solo lavorando sul rapporto di Antonia Pozzi con la poesia è scaturita la soluzione. Direi spontaneamente, l’immagine di se stessa bambina si è imposta, diventando sempre più forte e credibile. Nel film, Antonia ritrova la bambina che è stata tutte le volte in cui la poesia riesce a uscire, quando le parole riescono a superare “la porta dell’anima /che a palmo a palmo / spietatamente / si chiude!”. Anche l’angelo è un messaggero di poesia e non di morte. All’inizio Antonia si spaventa. Poi però si lascia prendere per mano, si lascia condurre. L’angelo l’accompagna davanti al cimitero, ma non per indurla a una scelta di morte. La lascia davanti al cancello: tocca ad Antonia decidere che cosa fare.

 

Una poesia di Antonia Pozzi che vi piace particolarmente?

 S.B. “Un destino”. Tutte le insicurezze di Antonia, le paure, la battaglia contro le porte dell’anima che si chiudono, culminano in questa poesia. In questa poesia c’è la scelta coraggiosa e consapevole della solitudine. Ci sono la forza, il dolore, la gioia, l’accettazione del destino, appunto, di essere poeta. Questa poesia  nel film è rappresentata come un ritrovamento della parte più vera del sé poetico e del sé bambino. sp
 M.O. Non posso che dire “Un destino”. Ho imparato ad accettarla e a rivolgerla – adattandola – a me stesso durante la produzione del docu-film. Credo che sia un inno al coraggio di accettare se stessi.

 

Quali saranno le prossime tappe di “Il cielo in me”?

Ovunque si voglia ascoltare e vedere poesia. E intanto, in collaborazione con Lombardia Film Commission, il 18 aprile allo Spazio Cinema presso la Manifattura Tabacchi in viale Fulvio Testi 121 a Milano. Il 9 maggio a Bellano. Il 15 maggio al Cinema Beltrade, in via Nino Oxilia 10 a Milano, con repliche nei giorni successivi (vd. www.cinemabeltrade.net). Altre date sono in programmazione. Parteciperemo a Festival, serate di poesia, andremo nelle scuole. In più nelle librerie è disponibile il cofanetto DVD con il libro delle “Poesie pasturesi” appena pubblicato da Bellavite.

Milano, 16 aprile 2014 – Tiziana Altea 

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