Dalle Lettere – Ad Antonio Maria Cervi – Milano, 13 aprile 1930

Antonello,
perdonami, ti prego, se ho taciuto a lungo. Neppure il 9 aprile ti ho fatto giungere la mia parola: ma stavo tanto male. Giorni di tormento atroce: spasimo morale che si faceva esasperazione fisica. Ora, al di fuori, una calma estenuata, ma dentro, finalmente, un po’ di luce.
Per lunghe, crudeli ore, il dubbio e l’ansia mi hanno tenuta avvolta, implacabili, inevitabili, come fumo che uscisse da ogni fessura della terra. Allora, sulla mia anima frantumata, nel mio corpo dolorante, a raffiche roventi, l’urlo dell’annientamento: sì, morire, morire; squarciarmi gli occhi per vedere, spezzarmi il cervello per comprendere, morire, per sapere. Poi, balzata non so come dal più stremato spasimo, fiore purpureo fiorito sul filo di una lama; una fermezza di proposito che m’ha rifatta. Anche se io non riuscirò mai a vedere nel vostro Cristo più che l’uomo, pure saprò farmi buona, saprò camminare, saprò crearmi dentro sempre più il mio dio: e non cercherò di conoscerlo, perché conoscerlo è rimpicciolirlo. Sarà un camminare con una meta canora dentro, che non si può vedere ma senza posa si sente; un vivere la vita senza abbandoni, creandosene dentro, ad ogni istante, gli scopi.
Con la luce, anche tu sei ritornato, Antonello.
Tu che t’eri fatto un’ombra lontana, senza voce, senza sguardo.
Antonello, accanto a te io costruisco la mia vita vera; accanto a te è la santità della mia esistenza.
A compiere la mia Missione io mi accingo, col più forte animo: l’amore e la fermezza tracceranno la mia strada.
La tua Antonia