Dalle Lettere – Ad Antonio Maria Cervi – Pasturo, 13 luglio 1929

Cervi caro,
voglio dedicare a lei questa prima sera che passo nel mio brutto, dolce paese. Che cosa è un ritorno? Una cosa che, per qualche ora, scioglie i groppi duri che separano l’oggi dall’ieri e fonde il passato e il presente con sicurezza fresca, dove il male non ha luogo.
La mia anima di oggi, la mia anima dell’anno passato, si sono ritrovate senz’urto e restano ancora abbracciate, stasera, in questo mio studio strano, fatto di mobili vecchi, accattati un po’ dappertutto; lo zoccolo di legno, l’armadio a muro, odoroso di pino, la finestra bassa e larga, il soffitto e le pareti irregolari gli danno l’aspetto di una baita alpestre.
È tanto lontano dalle altre stanze, che non vi giunge nessun rumore della casa.
Solo, dal giardino, dei brusii monotoni: oggi, nell’afa pomeridiana, era il ronzio delle api sui tigli fioriti; ora, è l’indolenza di una pioggerellina abulica.
Qualche ora fa, quando sono entrata, l’odore caratteristico di queste pareti mi ha investito e contorto il cuore come uno strappo brusco di redini…
Da questo tavolo, l’anno scorso, non ho mai pensato a Dio.
Quest’anno ci penserò. A Carnisio, ho tanto studiato: con calma, senza affanno. Sono contenta. Sono anche abbastanza buona. Prima di venire a scriverle, ho sonato le Fontane di Roma, per levigarmi l’anima.
E’ terribile essere una donna, ed avere diciassette anni.
Dentro non si ha che un pazzo desiderio di donarsi.
Ha ragione lei di dire che le donne non valgono niente.
Noi vediamo prima, ma i nostri occhi si chiudono anche prima. Scorgiamo le vette, ma, se qualcuna vi arriva, è perché ha in sé molto di virile.
Non è avvilente, Cervi, sentirsi più purificati per effetto della musica che per effetto della propria volontà? E’ quello che capita a me, stasera. Eppure, non dispero. Dall’anno scorso, ho camminato un pochino. Camminerò ancora.
Lo crede?
Con tanto affetto,
la sua Antonia Pozzi