Che cosa cerca, ancora, Antonia?

Intervista di Tiziana Altea a Onorina Dino e Graziella Bernabò

“Cercavo i ciclamini fra i rovai”. Antonia Pozzi, come nei suoi versi di ‘Canto selvaggio’, anche nella vita, nonostante il dolore – anzi, proprio perché sa il dolore – cerca la bellezza. Guarda il mondo per quello che è, nel bene e nel male. C’è il “velenoso mondo” (‘Fuga’), ma pure che “l’anima mia di fiore / era fiorita / per tutti i prati / di tutti i paesi” (‘Colloquio’). E poi il suo essere assoluta non significa essere esclusiva. Lei accoglie: attraverso la poesia, con la fotografia, nel cuore. Comprende la complessità dell’esserci, consapevole della propria fragilità e insieme della propria ardente dignità. È inclusiva ed empatica.
Che cosa cerca, ancora, Antonia? Lo chiediamo a Onorina Dino e Graziella Bernabò, curatrici del volume “Parole. Tutte le poesie” che, uscito per i tipi di Àncora nel 2015, è alla terza edizione.

Onorina, chi era Antonia Pozzi e che cosa cercava?
Antonia Pozzi era una giovane in cerca di amore, con la A maiuscola, e desiderosa di dare amore. Da bambina amava, com’è naturale, i genitori e tutti i suoi parenti, in particolare la nonna “Nena”; amava le sue amichette, soprattutto quelle di Pasturo, che le consentivano grandi corse per i campi, dove parlava ai fiori e li accarezzava, dove poteva meglio immergersi in un’aria di libertà e di respiro, sotto il cielo azzurro e il sole acceso sui monti. Questo amore diventò presto amore per il sapere, l’arte, la cultura, la poesia, la musica, il bello, il bene e amore per la fotografia, perché le cose, le persone, la natura avevano per lei un loro sentimento nascosto che l’obiettivo doveva cercare di cogliere, per sottrarle alla realtà effimera del tempo e assicurare loro un’esistenza più vicina possibile all’eternità. Per Antonia Pozzi il bello era sia quello visibile sia quello irraggiungibile, immaginato e sognato attraverso gli affetti umani, la bellezza e l’altezza delle montagne, il sorriso innocente dei piccoli e quello umile della gente semplice, con la quale condivideva la profonda umanità; infine il bello della poesia e dell’arte.

Graziella, chi è oggi Antonia e che cosa trovano oggi i lettori nel suo messaggio? Più specificamente ancora, che cosa dice alle donne Antonia?
Attualmente Antonia Pozzi è considerata non solo come una delle voci più interessanti della poesia italiana degli anni Venti-Trenta, ma anche come una figura in anticipo sui tempi, in quanto precorritrice di una visione della vita e di una sensibilità poetica successive. In effetti le sue poesie – fatta eccezione per alcuni elementi tardosimbolisti e crepuscolari dei primi quaderni, peraltro comprensibili in un’autrice molto giovane, e comunque contemporanei a esiti già molto interessanti – sembrano scritte oggi e parlano con sorprendente intensità al nostro presente. Quali le ragioni di questo suo successo postumo che non accenna a finire, anzi aumenta con il passare del tempo?
Bisogna prima di tutto premettere che, negli ultimi decenni e soprattutto negli ultimi anni, il gusto poetico è ovunque mutato, rispetto sia all’epoca di Antonia Pozzi sia al periodo successivo. Infatti, in relazione alla crescente problematicità della realtà contemporanea, si è ovunque diffuso, di contro alla poesia criptica o agli sperimentalismi linguistici precedentemente in voga, l’interesse per una poesia centrata sui grandi temi dell’esistenza e sul rapporto profondo dell’essere umano con il mondo. Aspetti, questi, centrali nell’intera produzione pozziana. Di fatto, quella di Antonia, è la poesia per eccellenza dell’incontro e della relazione con gli altri e con le «cose sorelle» (Largo). Vi trovano posto i luoghi prediletti – Pasturo, la Zelata di Bereguardo, le periferie di Milano Sud –, l’amore inteso come passione insieme spirituale e fisica, il desiderio inappagato della maternità, la dolcezza dell’amicizia, l’angoscia dell’incomprensione e della solitudine, il miracolo della poesia, una spiritualità di ampio respiro in cui non si avverte scissione tra corpo e anima, finito e infinito. Nelle sue poesie degli ultimi anni entrano poi la denuncia degli orrori delle guerre e l’attenzione ai problemi sociali negati dalla propaganda fascista, ma da lei riscontrati in tutta la loro evidenza nei desolati sobborghi che frequentava con Dino Formaggio, l’ultimo uomo da lei amato.
E tutto questo si traduceva in un linguaggio poetico nuovo per la sua epoca. Antonia Pozzi si poneva infatti al di fuori sia della poetica dell’«assenza» e delle rarefazioni degli ermetici di area fiorentina – sgradite a lei come ad Antonio Banfi, del cui gruppo faceva parte –, sia della disciplinata e composta «poetica degli oggetti» che stava alla base di quella che Luciano Anceschi, critico di area banfiana, avrebbe definito in seguito «linea lombarda». La sua era piuttosto una poesia del radicamento forte e vivo nel reale, che si realizzava – pur nell’ambito di una rigorosa elaborazione formale e di una raffinatezza stilistica tanto più notevole quanto meno esibita – attraverso un asse metonimico di associazioni logiche estremamente sensoriali, quindi di immediata comunicatività. In questo modo Antonia superava la frattura tra parola e corpo che altri poeti del suo tempo si imponevano come una sorta di dovere, e riusciva a esprimere un meraviglioso e libero immaginario di donna. Questo però doveva apparire sconcertante all’interno del suo ambiente culturale, in cui le donne erano accolte volentieri, ma contemplate essenzialmente nei loro aspetti di omologazione a un pensiero fortemente razionalista che, sebbene estraneo agli squallidi miti fascisti e aperto invece alla più moderna e interessante filosofia europea, restava ancora chiuso, per ovvie ragioni storiche, all’alterità femminile. Non a caso la vera e propria riscoperta di Antonia Pozzi in Italia e all’estero (che è andata molto oltre la valorizzazione di Montale avvenuta negli anni Quaranta) è iniziata a partire dagli anni Ottanta del Novecento, in concomitanza con una crescente valorizzazione della scrittura delle donne, finalmente apprezzata per se stessa, quindi non più soltanto nell’ottica banale di una subordinazione o di una assimilazione a quella maschile.
Per esempio, oggi possono dirci molto poesie del 1931 come La porta che si chiude e Rossori, e del 1933 come Il volto nuovo e Il porto, dove, con fisica concretezza, trova espressione quel senso di estraneità a se stessa e alla vita che è costretta a sperimentare una donna a cui viene impedito di esprimere il suo più vero essere. E affascinante appare – specialmente nelle poesie più mature di Antonia, come Radici, Tempo, Le montagne – la sua visione degli amati monti di Pasturo, che si risolve in immagini, da un lato, ancestrali e mitiche, dall’altro, familiari, materne e protettive. Infatti queste montagne, con cui lei mostra di avere un rapporto privilegiato, custodiscono nel loro «grembo», insieme alla vita sotterranea e segreta che incessantemente si rinnova, il suo stesso «stelo / di pallide certezze» (Radici); e per tutti sono «madri» silenziose e forti che «maturano figli / all’assente» nell’«infinita speranza di un ritorno» (Le montagne). Su un piano più generale, è di grande impatto nei versi pozziani la rappresentazione della terra-madre e della sua rigogliosa vegetazione, soprattutto dei suoi moltissimi e variegati fiori, che appaiono insieme straniati e carnali, nell’esprimere un ardente eros di donna rivolto sia all’uomo amato sia alla vita tutta. Penso, per fare solo pochi esempi, alle «camelie bianche rosse ridenti» della poesia I fiori; all’«irto fiore» di Nevai , ai «mughetti che crescono senza tregua» di Tempo e alle «salvie rosse» che, in Voce di donna, gridano l’amore e il dolore della sposa di un soldato lontano per la guerra.
Per concludere, parafrasando il titolo di quest’ultima poesia, potremmo dire che quella di Antonia Pozzi è un’originale ed energica «voce di donna», come tale apprezzata e amata oggi da tante donne che vi si riconoscono, ma anche da quegli uomini – e non sono pochi – che si dimostrano capaci di valorizzare, nella vita come nella poesia, la «differenza» femminile, vedendola come una ricchezza per tutti.

Onorina, dopo “Poesia che mi guardi”, edito nel 2010 da Luca Sossella Editore, è stata pubblicata questa nuova raccolta, che contiene anche l’inedita ‘Gelosie’. Come mai è stata recuperata solo ora questa poesia? Ci racconti la storia di questo nuovo volume e, se ci fosse, anche di qualche episodio “inedito” durante la sua elaborazione.
Questa edizione di Parole del 2015, poi ristampata nel 2016 e nel 2017, è nata dalla volontà della casa editrice e di noi curatrici di far risuonare ancora – e, per la prima volta, nella sua integralità – la voce poetica di Antonia Pozzi, tanto più che erano divenute ormai introvabili sia l’edizione del 2008 di Viennepierre Poesia mi confesso con te. Ultime poesie inedite sia l’edizione Sossella. La nuova edizione, come si conviene a ogni serio lavoro di curatela, ha costretto, per così dire, Graziella Bernabò e me a un esame ex novo degli autografi di Antonia, essendo noi consapevoli delle cancellazioni e dei tagli apportati ai manoscritti della poetessa dal padre di lei, Roberto Pozzi. Abbiamo voluto fare un lavoro estremamente accurato, che fosse il più possibile preciso, nel senso della rispondenza perfetta agli scritti di Antonia, eliminando ogni intervento censorio e ogni cambiamento stilistico e/o contenutistico. Questo lavoro – oltre che al necessario confronto tra gli autografi e le poesie trascritte in vari taccuini da Lucia Bozzi, la grande amica di Antonia e custode di molte sue carte durante la sua vita e, soprattutto, dopo la sua morte – ci ha spinte anche a cercare di restituire l’unica poesia rimasta ancora chiusa nei quaderni di Antonia per la grande difficoltà incontrata a ogni tentativo di lettura di questo testo, a causa delle pagine in parte tagliate e in parte incollate una sull’altra da Roberto Pozzi allo scopo di salvare i testi che intendeva conservare. Questo lavoro ha richiesto molto tempo e notevole pazienza e abilità, non solo per decifrare la parte di poesia che si intravedeva, ma anche per non rovinare, scollando le pagine, quel poco che di essa era rimasto. La poesia, infatti, nei quaderni di Antonia non è completa a causa dei tagli di cui ho detto, ma abbiamo potuto integrare le parti mancanti proprio grazie ai taccuini di Lucia Bozzi. Con Gelosie abbiamo scoperto un importante tassello della personalità di Antonia, la quale non teme di svelare, proprio nel titolo, quell’ombra che aveva tentato di offuscare il rapporto d’amicizia tra lei e Lucia, perché il suo professore, aveva donato a quest’ultima – un’ex allieva da lui molto apprezzata – una fotografia del fratello Annunzio, morto in guerra nel 1918, e Lucia, pensando di farle cosa gradita, gliel’aveva mostrata. È molto interessante leggere, nella seconda parte del testo, come Antonia si sottoponga a un serio esame di coscienza, che la porta a riconoscere e a condannare il proprio errore, quando il suo sguardo e il suo cuore s’incontrano con l’infinito del cielo e con la luce delle stelle che in esso ardono: da Cervi lei ha avuto la cosa «più dolce»: un amore purissimo, perciò non ha alcuna importanza che egli abbia scelto come destinataria della foto Lucia. Inoltre scopriamo in questa poesia dell’adolescenza la nota fondamentale della pedagogia di Cervi professore, che, avendo certamente notato la grande sensibilità di Antonia e il suo affetto crescente per lui, anche se lei ancora non glielo aveva rivelato, e la passione con cui si era accostata alla figura del fratello morto in guerra, aveva preferito regalare una fotografia di Annunzio a Lucia, certamente più matura di Antonia e dalla sensibilità più equilibrata. Possiamo comprendere dunque quanto fosse forte l’ascendente educativo che egli esercitava su Antonia dai versi che chiudono la poesia: «Che io lo segua in purità egli vuole: // ed io lo seguirò, verso la vetta».

Graziella, lei ha scritto del coraggio della poesia di Antonia Pozzi. Perché?
Ho scritto di questo in riferimento al 1935, un anno per lei difficile su molti piani. Prima di tutto per  la fine della speranza d’amore con il compagno di studi Remo Cantoni, che ricambiava il suo sentimento solo con una affettuosa amicizia. In secondo luogo per il suicidio dell’amico Gianni Manzi e per la decisione della sua amica più cara, Lucia Bozzi, di entrare in convento. Ma su Antonia, che da sempre aveva fatto della poesia una fondamentale ragione di vita, anzi il cuore della sua stessa esistenza – come si vede dalla sua corrispondenza con l’amico poeta Tullio Gadenz –, pesò moltissimo anche la netta sottovalutazione dei suoi versi all’interno del gruppo banfiano. In realtà, dietro tale giudizio, non c’era alcuna malevolenza, tanto più che Antonia Pozzi era molto benvoluta per la sua gentilezza e generosità e godeva di sicura stima come intelligente e dotata allieva di Banfi, che le propose addirittura la pubblicazione della tesi di laurea sull’apprendistato letterario di Flaubert. In questo ambiente fortemente razionalista risultava invece difficile accettare la sua poesia centrata sull’emozione e sulla relazione, cioè su aspetti oggi ampiamente rivalutati, perfino su un piano filosofico, ma in quel momento considerati erroneamente come forme di sentimentalismo e di debolezza da superare con uno sforzo di volontà. Antonia visse di conseguenza momenti di grande scoraggiamento, anche se in fondo reagì proprio continuando a scrivere versi, e versi nei quali non rinunciava a esprimere quella calda e totale apertura al mondo che dagli amici era vista come una forma di «disordine», secondo quanto lei stessa scriveva nel diario il 4 febbraio 1935 (A. Pozzi, Diari e altri scritti, Àncora, Milano 2018, p. 87). Insomma volle coraggiosamente rimanere se stessa come donna e come poeta, pur sapendo che questo avrebbe comportato per lei un’incomprensione esterna. Lo si vede alla fine di Un destino, una poesia scritta emblematicamente il 13 febbraio 1935, giorno del suo compleanno : «[…] e se nessuna porta / s’apre alla tua fatica, / se ridato / t’è ad ogni passo il peso del tuo volto, / se è tua questa che è più di un dolore /gioia di continuare sola / nel limpido deserto dei tuoi monti // ora accetti d’esser poeta».

Onorina, c’è scarto tra il donarsi poetico e il donarsi esistenziale di Antonia? Arte e vita dove si scontrano e dove si incontrano nel senso più vero?
Antonia Pozzi intitola Bellezza una sua poesia del 1934, dedicata a Remo Cantoni; a partire da questa poesia forse possiamo capire anche qualcosa del rapporto tra arte e vita, tra il donarsi poetico e il donarsi esistenziale di Antonia Pozzi. E scopriamo che si tratta di un rapporto di incontro, e di incontro profondo: Antonia fa dono all’uomo che sogna di avere come compagno della propria vita non solo di se stessa ma anche di tutto ciò che ha riempito di bellezza fino a quel momento la sua vita: e sono paesaggi, montagne e mari, cielo e sole e stelle, albe e meriggi e tramonti, brezza e vento, ulivi e spighe, e colonne e statue, e cipressi e nidi…e il suo essere come uno stelo che di fronte alla bellezza trema ed è costretto a chinarsi, piegato dal vento. E che cosa è l’arte se non qualcosa che nasce dal cuore, dalla mente, dalle mani dell’uomo, animato e al tempo stesso reso estatico dal fascino della bellezza? Non è l’arte un’esigenza dello spirito? Del resto basterebbe leggere alcune lettere di Antonia a Tullio Gadenz, come quella dell’11 gennaio 1933, in cui scrive: « […] la poesia, non è vero, ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare» (A. Pozzi. Ti scrivo dal mio vecchio tavolo: lettere 1919-1938, a cura di Graziella Bernabò – O. Dino, Àncora, Milano 2014, p.155); o quella del 29 gennaio dello stesso anno, in cui scrive: «[…] non per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che brucia attraverso tutta la mia vita, per una adesione innata, irrevocabile, del più profondo essere, io credo, Tullio, alla poesia. E vivo della poesia come le vene vivono del sangue. Io so che cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima e bere con quelli l’anima delle cose e le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore» (Ibidem, p. 160). Un altro esempio, fra i tanti, di questa adesione tra arte e vita, si trova in un punto della sua tesi di laurea, in cui critica l’ermetismo, definendolo «una forma […] di arbitrarietà intuitiva che non ha più un metro a cui confrontarsi nell’oggettività dell’espressione (e la poesia pare oggi, così, distolta dalla pienezza della realtà umana e ha ormai solo carattere di evasione  e di rifugio interiore, non più di comprensione e di risoluzione della vita completa» (A. Pozzi, Flaubert. La Formazione Letteraria (1830-1856), Garzanti, Milano 1940, p. 222): poesia dunque che si estrania dalla vita e, per questo, perde ogni vigore e diventa pura astrazione. E, infine, basterebbe leggere la sua poesia Un destino, del 1935, in cui, dopo la negazione della sua poesia da parte del professor Antonio Banfi e del gruppo banfiano in genere, Antonia Pozzi sceglie di aderire alla poesia, e quindi all’arte, a prezzo della fatica di tutta la vita, sola e lontana dalla vita degli altri con i quali avrebbe voluto condividerla, perché «Lumi e capanne / ai bivi / chiamarono i compagni» e «In un suo fuoco assorto/ciascuno degli umani / ad un’unica vita si abbandona»,  mentre a lei non rimane se non  «questa che il vento ti disvela / pallida strada nella notte», con la consapevolezza, però, che «[…] sul lento / tuo andar di fiume che non trova foce, / l’argenteo lume di infinite / vite –  delle libere stelle / ora trema…». È la consapevolezza della libertà e della possibilità di vivere secondo propri criteri e proprie scelte, aderendo a quella vocazione poetica che non le assicura una vita comoda e tranquilla, ma le offre «infinite vite», come la vita delle «libere stelle».
Arte e vita si scontrano in Antonia Pozzi là dove l’arte è guardata con occhi diversi da come la guarda lei: ed è appunto la concezione di arte che le gira attorno a metterla in crisi, e in crisi profonda, dal momento che la differenza viene a toccare le sue relazioni umane e affettive; ma, come ho già detto, Antonia supera questo scoglio con la forza che le viene dal di dentro e che la  fa «vivere della poesia come le vene vivono del sangue».

Graziella, lei ha avuto modo di raccogliere diverse testimonianze su Antonia. Dell’ultima fase, quella dei “tempi bui”, che cosa le hanno detto?
Il periodo tra il settembre e l’inizio del dicembre 1938 (Antonia volle togliersi la vita il 2 dicembre e morì il giorno successivo) fu per lei molto difficile. Prima di tutto per il terribile momento storico; infatti l’allineamento di Mussolini a Hitler aveva portato a un ulteriore incupimento della già pesante dittatura fascista. E, soprattutto, era iniziato dal mese di settembre il varo delle nefande leggi antiebraiche che, tra l’altro, avevano spinto a fuggire dall’Italia i suoi carissimi amici Paolo e Piero Treves con la loro madre Olga, e che Antonia, senza ombra di dubbio, visse con grande angoscia. Lo si vede in una sua lettera del 27 settembre 1938 a Dino Formaggio, che, prima di riconsegnarla a Roberto Pozzi, ne ricopiò questo frammento, di recente pubblicato: «E soprattutto siamo stufi di prepotenze, di soprusi, di aggressioni che sui giornali diventano “sacrosanti diritti”, degli urli della folla anonima ridotta allo stato di bestia cieca, della repressione barbara e retrograda di ogni voce umanitaria, del quotidiano capovolgimento della realtà di fatto» (in D. Formaggio, Amo la tua anima. Lettere ad Antonia Pozzi, con Altre Lettere a Dino di Antonia Pozzi, a cura di Giuseppe Sandrini, con la collaborazione di Lucia Pretto, alba pratalia, Verona 2016, p. 95). Lo attestano inoltre le sue struggenti lettere a Paolo Treves del 3 ottobre e del 5 novembre 1938 e un’affermazione contenuta nell’ultima lettera alla famiglia, di cui il padre trascrisse solo alcuni passi, dopo averla bruciata: «Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite…» (A. Pozzi. 1° dicembre 1938, in Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938, cit., Milano 2018, p. 314.
È poi indubbio che su Antonia abbia pesato anche il venir meno della speranza di un futuro d’amore con Dino Formaggio, come mi fu accennato dalla sua amica Elvira Gandini e dallo stesso Formaggio, che la incontrarono a un concerto alla vigilia del suicidio. Ma questo, di per sé, non sarebbe stato un sufficiente motivo della sua morte volontaria, se la sua angoscia finale non si fosse inscritta in una malinconia esistenziale che datava fin dall’adolescenza e in una storia di dolorose sconfitte affettive: la prima per l’opposizione del padre al matrimonio con il professor Antonio Maria Cervi, la seconda per  l’amore non corrisposto nei confronti di Remo Cantoni. Senza contare che la delusione per la fine del rapporto con Dino Formaggio riguardava per lei la fine, oltre che di una storia sentimentale, di un intero progetto di vita basato su un forte impegno sociale, etico e, in embrione, perfino politico: insomma di «una vita vissuta tutta dal di dentro» (A. Pozzi, Lettera a Paolo Treves del 23 ottobre 1938, in Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938, cit., p.310) che aveva a lungo sperato di condividere con lui.

Onorina, ci indichi tre poesie che ama molto di Antonia Pozzi e ci spieghi il perché.
Non è facile scegliere tra le molte poesie di Antonia, perciò ne scelgo tre che amo, come ne amo tantissime altre: Preghiera, Ritorno serale, Sera a settembre.
Preghiera è del 1932, l’anno in cui Antonia Pozzi scrive il minor numero di poesie; in compenso tra esse si trovano quelle che più intensamente riflettono il dramma dell’assenza di Dio e, quindi, della sua ricerca, del suo bisogno di Lui. Antonia ha conosciuto Dio in un tempo lontano e poi non lo ha più incontrato veramente, ma solo di riflesso, nelle immagini della natura oppure nel volto dell’amato: «[…] era Dio che parlava in te, che voleva salvarmi attraverso di te. […] Tu sei stato la parola di Dio in me, la promessa della mia redenzione» (Lettera ad A. M. Cervi, 11-15 febbraio 1934, in A. Pozzi, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo: lettere1919-1938, cit., p. 188).
Le vicissitudini della vita la tengono in uno stato d’ansia e di vuoto interiore che la rende incapace di scrivere poesia. Antonia, sente che le manca Dio; le manca come certezza, come speranza, le manca come consolazione e sostegno in un cammino irto di ostacoli e precipizi, dove inciampare e cadere sono l’unico esito possibile, perché «Non avere un Dio» significa brancolare nel buio, «acciecarsi nel nulla», come scrive in Grido, anch’essa del 1932. Dopo tanto dibattersi nel vuoto, in un altro momento non meno doloroso, del 1933, recupera finalmente quel Dio lontano, ma vicino come il vento che passa «sopra l’erba dei prati» senza che si sappia riconoscerlo e seguirlo (Prati), attraverso la preghiera, che si fa domanda e supplica: «Signore, per tutto il mio pianto, / ridammi una stilla di te/ ch’io riviva» . Antonia riconosce che il Signore è il Dio della vita, è la sorgente stessa della poesia: «il tuo canto segreto». E, mentre non sembra chiedergli cose straordinarie, è invece davvero eccezionale la sua domanda e presume una grande fede: chiedere «una stilla di te» significa credere che Dio è tutto e che lei è tanto povera cosa che una «stilla» sola della sua acqua divina ristoratrice le può bastare per rinascere, per tornare ad essere ancora la “portavoce” del suo «canto segreto», per tornare ad essere poeta.
Ritorno serale, una delle più belle poesie del 1933, prende il via da un ritorno a Pasturo, che conferma in Antonia la coscienza del suo rapporto con il paese di montagna, dove spesso si ritira per riposare e per studiare. La lirica si apre e si chiude con immagini e gesti d’amore: il «nido» e le «ginocchia materne», su cui «appoggiare la fronte»; il «silenzio», che abbraccia e avvolge «nel suo manto le cose» e dona la pace. Antonia, riferendosi a Pasturo, fa uscire dall’ombra la figura della madre, Lina, con due sole parole «ginocchia materne»: un’immagine che fa capire quanto riposo Antonia trovasse in lei, nel suo amore semplice, fatto più di sguardi che di parole; quanta fiducia riponesse in lei, la fiducia che l’ha accompagnata nella sua infanzia. È infatti atteggiamento da bambina quello di gettarsi ai piedi della madre e, appoggiando il capo sulle sue ginocchia, addormentarsi e forse sognare. Perciò Pasturo è doppiamente «nido»: luogo di quiete e di silenzio riposante in cui abbandonare le ansie e i pensieri angoscianti, dove la vita trova un riparo, il dolore una possibilità di scioglimento; dove il male non ha luogo; ed è anche la casa, la famiglia, soprattutto la madre. Non a caso, in un’altra poesia del 1937, Le montagne, Antonia chiama le montagne «madri» e le dipinge nell’atto di scrutare l’orizzonte, ansiose di vedere finalmente ritornare i figli, lontani per la guerra.
In Sera a settembre, anch’essa del 1937, come in tante altre poesie, lo sguardo di Antonia è uno sguardo di intenzione, di partecipazione affettuosa, che sarebbe più corretto definire com-passione. In questa lirica la compassione è tutta rivolta verso gente forestiera, guardata male quasi sempre e ovunque dagli abitanti autoctoni: una famiglia di zingari, arrivati a Pasturo chissà da dove. Su di loro si china la tenerezza di Antonia. Ma, prima che si focalizzi su di essi, il suo sguardo si è allargato sul panorama della transumanza, nel quale si allineano e si intrecciano monti e valle, animali, carri e bambini che «s’aggrappano ai carri», per godere del loro dondolio, del loro odore di fieno, della compagnia dei grandi, con i quali sentirsi grandi anch’essi. E quanta energia e scioltezza e vivacità in quell’aggrapparsi: è una conquista, una vittoria. Accanto all’immagine gioiosa dei bambini, un’altra se ne apre, quella delle «rade, calde case illuminate», che mette in rilievo il contrasto fra due condizioni di vita: pochi possono godere del caldo tepore di una casa e della luce che neutralizza il buio della sera di settembre, dando non solo sicurezza e conforto, ma anche visibilità a chi vi abita – una sorta di affermazione sociale. Gli zingari invece vivono «accampati sulle strade», senza tepore, senza luce, senza visibilità sociale, se non quella della loro indigenza, che è, quasi come contrappeso, libertà: libertà nello spazio, libertà dalle convenzioni sociali, libertà di cantare ciò che sono con le loro nenie malinconiche. Qui la tenerezza di Antonia, la sua intima sofferenza si condensa nell’espressione «a me», che assume un valore fortemente affettivo, come a dire: per me, proprio per me «salgono» quelle nenie, a trafiggermi l’anima.

Graziella, quali versi pozziani possono declinarsi e stagliarsi anche nel buio del nostro tempo e perché?
Una poesia che mi viene in mente, a proposito del buio del nostro tempo, in cui continuano a perpetuarsi i misfatti della Storia con la “S” maiuscola – come la definiva un’altra grande donna, Elsa Morante –, è La Terra, dell’8 settembre 1937, quindi di un momento storico in cui imperversavano nel mondo terribili conflitti. Qui lo sgomento per le guerre sino-giapponese e di Spagna, con un espressionismo lessicale insolito nella lirica italiana degli anni Trenta, percorre non solo l’io poetante, ma anche tre luoghi in quel periodo particolarmente frequentati e amati da Antonia Pozzi – il litorale adriatico, la Val d’Ayas e Pasturo – ambienti di per sé tranquilli ma straniati dalla percezione di queste immani tragedie. Antonia ne affida l’annuncio al «vecchio gobbo», il mendicante indovino che ogni settembre giungeva alla fiera pasturese: « […] e a mezzodì s’avanza il vecchio gobbo, / canta sui ciotoli [sic] e per le donne accorse/ fra i trilli del suo timpano d’argento: “È fiorito il bambù, dopo cent’anni. / In riva a tutti i mari e ne morrà. Coll’autunno si secca la foglia, / a oriente scorron fossati di sangue, / vidi le braccia di migliaia d’uccisi / penzolar sull’abisso / ad occidente”». In questa poesia, come nella Storia di Elsa Morante, il ripudio della guerra non nasce dunque da un’astratta presa di posizione ideologica ma da una concreta sofferenza, vissuta dall’autrice nella propria carne e condivisa con uno schietto mondo popolare.
Inoltre voglio ricordare una poesia molto importante del 1938, Via dei Cinquecento, dove Antonia, con una sofferta partecipazione emozionale e con un linguaggio volutamente schietto e crudo, parla di quello che trovava nella «casa degli sfrattati», situata appunto in quella strada milanese di estrema periferia, smentendo così l’immagine edulcorata che la propaganda fascista trasmetteva dei ceti più indigenti: «[…] la fame non appagata, / gli urli dei bimbi non placati, / il petto delle mamme tisiche / e l’odore –/ odor di cenci, d’escrementi, di morti – / serpeggiante per tetri corridoi –[…]». Mi sembra che questa sua empatia verso l’umanità offesa possa acquistare un profondo significato in un’epoca, come quella attuale, di crescente indifferenza e, talora, di vera e propria ostilità nei confronti di tante persone provate dalla fame, dalle guerre e da altre forme di violenza, e continuamente mortificate nella loro dignità.

Grazie infinite a entrambe per questo prezioso contributo. Un dono con cui, da questo sito, auguriamo Buone feste a tutte e tutti!

 

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