‘Come le vene vivono del sangue: vita imperdonabile di Antonia Pozzi’

‘Come le vene vivono del sangue: vita imperdonabile di Antonia Pozzi’. Romanzo di Gaia De Pascale (Ponte alle Grazie, Milano 2016)

Intervista all’autrice / di Tiziana Altea


‘Anche la sirena è spenta. Non ne vale più la pena. Tutto, anche le cose, vivono il silenzio come un segno di rispetto verso il mio corpo che già non c’è più’. Gaia De Pascale, per i tipi di Ponte alle Grazie, è uscita a inizio 2016 con ‘Come le vene vivono del sangue: vita imperdonabile di Antonia Pozzi’. Un romanzo che ripercorre la vita della poetessa e fotografa milanese così: con l’anima che guarda dal letto di morte. Dall’ospedale fino all’ultimo rientro alla casa di via Mascheroni. Uno sguardo interiore, sul proprio sentire e pensare, che è al contempo sguardo esteriore, come l’occhio di una cinepresa su attimi andati o aspettati. Ripresi ora. E c’è l’impermanenza della bellezza: ‘Mi piace pensare ai corpi di quei fiori, a quel che ne resta, come al mio: ancora qui, ma già altrove. I papaveri’ ricorda Antonia, insieme ai campi condivisi con Dino Formaggio. C’è la ricerca di verità, della propria spiritualità, diversa da quella dell’amica Cia: ‘Entrambe non abbiamo fatto altro che  cercare il modo di tornare nel grembo, solo che quello che lei ha sempre chiamato Dio io lo chiamo il viaggio verso le radici. Il punto in cui ogni cosa ha avuto inizio. È per questo che chiunque di noi si dibatte: per afferrare un barlume di completezza, qualunque sia il prezzo di una simile presa’. C’è il rapporto commovente con la madre, e la convinzione che alla fine lei, nonostante il dolore per la scomparsa della sua fiolina, ‘capirà prima di chiunque altro che questa non è una resa, ma il punto più alto del mio essere ciò che sono. Un ultimo, estremo sussulto di dignità, in cui Antonia è davvero Antonia, e il tempo passato e il tempo futuro possono legarsi in una sorta di rivelazione’. Ci sono le ‘braccia forti’ e rassicuranti dell’amata nonna Nena. ‘L’unica carne che ho sempre sentito uguale alla mia. […] La mia spalla e la mia consigliera’. C’è l’amore. Antonello. Remo. Dino. Con cui si dialoga a ritroso con pacata e sofferta lucidità, e con un cuore che mai finirà. C’è la poesia. ‘Un giorno, […] iniziai a comporre versi miei. Volevo parlare di me, e parlare di me non poteva che voler dire parlare del mio corpo […]. Era tutto lì, nelle lettere che si susseguivano in una grafia discreta, nelle palpitazioni del mio petto che sembravano voler riaccordare la musica stonata della pioggia, nell’orgoglio per il mio corpo forte e acerbo che non voleva più nascondersi. Aveva bisogno di parole’. E, con l’anima, bisogno delle montagne. ‘Poi, zaino in spalla, mi inerpicavo alla ricerca del godimento dell’ascesa’. Non mancano i viaggi e le amicizie profonde. Gli studi, il professor Banfi e i banfiani. C’è suo padre. ‘Papà sta piangendo. Forse solo io lo so. Sento le sue lacrime, anche se non cadono giù dagli occhi. È una cosa nel respiro, un singulto sommesso, un suono sordo […]. Povero padre, perduto  in questa stanza in cui ogni cosa si sottrae al suo controllo’. C’è la fotografia, che è più di una passione: ‘Soprattutto potevo, con il mio obiettivo, andare alla ricerca di ciò che di solido mi abitava intorno, e tentare di farlo mio. […] Vorrei che chi, prima o poi, ritroverà le mie foto, e si soffermerà a guardarle, potesse sentire l’odore del fieno, il profumo della polenta rimestata per strada nei grandi paioli. […] Vorrei che mi riconoscesse, nella mucca accucciata in attesa della pioggia, nella donna che lucida il rame la vigilia della festa. Che mi trovasse, anche ora, nel portone chiuso, nell’insegna dell’osteria deserta, alle dieci del mattino. In attesa’. C’è la presa di coscienza di un mondo, oltre il proprio, con il proprio. ‘Sentii come una fitta improvvisa che non esisteva solo il mio dolore, esisteva anche il dolore. Non solo il mio male, anche il male. E provai un profondo senso di pietà per il mondo, e di amore per chi, in quel mondo, in questo nostro mondo, si ostina ad abitare, nonostante tutto’. E arriva l’angoscia per non aver capito prima. E perché ci sono fatti, vedi le leggi razziali e ‘l’allineamento ideologico con la Germania nazista’ che non si riescono a capire: ‘I proclami del Duce mi arrivavano come eco lontane di deliri di onnipotenza. Fui così ingenua da non soffermarmi troppo sulle conseguenze pratiche di quelle parole – eppure le parole, che costruiscono mondi, sono anche in grado di distruggerli. E io dovevo saperlo. […] La violenza della Storia era entrata nel mio mondo, aveva mandato in pezzi la campana di vetro delle mie relazioni’. C’è questo e molto altro ancora nel romanzo di De Pascale. C’è Antonia che incontra l’angelo. Fino al ‘miracolo’ di riuscire a vederlo. Un passo straordinario, che vi lasciamo il piacere di scoprire da voi.

D: Come nasce il suo incontro con Antonia Pozzi?

È stato un incontro casuale, risalente agli anni dell’Università. All’epoca ero particolarmente interessata alla poesia e, nella mia ricerca di voci, soprattutto femminili, che avessero lasciato un segno nella storia della letteratura del Novecento, l’incontro con Antonia Pozzi fu quello che più mi segnò a livello personale. Amai le sue poesie fin da subito e non riuscivo a spiegarmi perché le sue opere non comparissero nelle antologie. Per fortuna oggi le cose stanno un po’ cambiando…

D: Perché scrivere un romanzo su di lei?

Negli ultimi anni, per questioni professionali, mi sono ritrovata a scrivere alcune biografie (sia come autrice che come ghost writer). Ogni volta, anche se avevo occasione di fare lunghe interviste ai personaggi di cui raccontavo l’esistenza, mi ritrovavo a pensare che in fondo non era molto diverso dallo scrivere un romanzo. Loro erano i miei personaggi, e io non dovevo far altro che mediare tra realtà e finzione, verità e fiction. È così sempre, anche quando si ha davanti il soggetto del proprio lavoro. Scrivere le vite degli altri è un’opera di empatia e mediazione, che spinge a portare a galla il romanzesco che si annida in qualsiasi vita. A un certo punto ho sentito però l’esigenza di fare un passo più in là verso il romanzo. Quando ho cominciato a pensare a un “personaggio” che non aveva finito di dire tutto quello che avrebbe voluto dire mi è subito venuta in mente Antonia Pozzi.

D: Il suo romanzo si presta molto a una sceneggiatura cinematografica, giocato com’è su flashback. Come le è venuta l’idea?

Ci sono frasi, versi, immagini che a volte ci restano dentro come delle ossessioni, delle quali in qualche modo ci dobbiamo liberare. La mia ossessione, anche per vicende personali, è stata La porta che si chiude, là dove la Pozzi scrive: “E l’ultimo giorno / – io lo so – / l’ultimo giorno / quando un’unica lama di luce pioverà dall’estremo / spiraglio dentro la tenebra, / allora sarà l’onda mostruosa, l’urto tremendo, / l’urlo mortale / delle parole non nate / verso l’ultimo sogno di sole (…)”. Se già è intollerabile pensare agli ultimi istanti di vita di una persona, ancora più difficile è pensare a un corpo imprigionato per ore tra la vita e la morte – tanto più se si tratta del corpo di una poetessa la cui vita è sempre stata segnata da un’ansia, un bisogno anche fisico di dire, di esprimersi, di avere una voce. Con questo romanzo ho voluto rendere omaggio a una grande artista e a una grande donna, colmando, per come ho potuto, quel vuoto, per tentare di attenuare, almeno un poco, “l’urto tremendo, / l’urlo mortale / delle parole non nate”.

D: Il linguaggio a tratti è una parafrasi di quello pozziano. Cogliamo qualcosa di più di uno stile. E un rimarcare la corporeità, il senso del corpo. Quanto sente Antonia Pozzi?

Ho scritto tutto il libro con la “leggerezza” con la quale si affronta un esperimento. Poteva funzionare o meno, in questo secondo caso pazienza, il romanzo non sarebbe mai stato pubblicato. Una volta uscito, però, mi sono resa conto che la mia operazione, la scelta di scrivere in prima persona la vicenda di un’artista di quel calibro, avrebbe potuto sembrare presuntuosa. In realtà il mio intento era proprio il contrario. Scrivere una biografia in terza persona, senza avere alle spalle l’assiduo lavora di ricerca che ha caratterizzato altre studiose, penso in particolare a Graziella Bernabò e Onorina Dino, sarebbe stato un “giudicare da fuori” senza avere le competenze per farlo. Nel momento in cui ho deciso di “prendere la voce di Antonia” ho tentato di fare un accurato lavoro di mimesi, lavorando sul suo vocabolario, parafrasando versi e passi tratti dai diari e dalle lettere, tentando, per come ho potuto, di usare un lessico il più possibile aderente a quello che lei avrebbe usato. Antonia Pozzi ha avuto un approccio molto corporale alla scrittura, pur riuscendo ad innalzarsi ben oltre la fisicità delle cose del mondo, e a toccare vette di spiritualità sconosciute ai più. E questa è una delle cose che ho sempre ammirato in lei, e che mi hanno portato a sentirla in maniera forte, costante, tanto che posso dire di aver instaurato con Antonia Pozzi un rapporto davvero empatico, che me l’ha fatta sentire estremamente vicina mentre scrivevo il romanzo, ed estremamente lontana quando il romanzo si è chiuso.

D: Fa dire ad Antonia (pag. 86): ‘Non ho mai smesso di portare dentro di me la vergogna e l’orgoglio di essere poeta’. Secondo noi non era vergogna ma senso del pudore. Dobbiamo leggerla così o come?

Ho scelto il termine vergogna, per quanto mi renda conto che possa suonare particolarmente forte, perché credo che la Pozzi abbia patito un profondo turbamento per la reazione degli altri (dalla famiglia al “gruppo Banfi”) ai suoi versi – tanto da orientarsi, negli ultimi anni di vita, alla narrativa, genere letterario più consono allo spirito del tempo.

D: Da questa sua intensa esperienza pozziana, quali ritiene essere i limiti e quali le virtù di Antonia?

Penso che il maggior limite di Antonia sia anche la sua maggior virtù: la sua vita è stata un grande ossimoro, una continua conciliazione degli opposti, un non accontentarsi di una definizione univoca, di una strada sola. Antonia Pozzi ha vissuto poco, ma ha vissuto molto intensamente, abbracciando il cielo e la terra, la pianura padana e le alte montagne, frequentando gli ambienti alto-borghesi e le più putride periferie, viaggiando tanto, scrivendo, fotografando, lottando sempre per un’impossibile normalità e custodendo al contempo con gelosia il marchio di una differenza, di una impossibilità ad adattarsi completamente al quotidiano. In riva alla vita, ma a una vita che non lasciava fuori niente.
È riuscita a essere tante cose insieme, e ne ha pagato il prezzo fino in fondo.

D: Dovesse riassumerla in poche parole, qual è il messaggio più profondo che la poeta ci lascia?

Rispondo con questi suoi versi: “E domani saremo / soli / col nostro cuore / verso il nostro destino. / Ma ancora, nel profondo, tremerà il palpito lontano / delle ali sorelle e si convertirà / in nuova ansia di volo”.

D: E infine, chi è Gaia De Pascale?

Questa è la domanda più difficile. Insegnante, scrittrice, collaboratrice editoriale. Soprattutto madre. Ma ancora non trovo una definizione che mi comprenda tutta. Sono alla ricerca, e la scrittura è il mezzo che ho scelto per questo viaggio che spero mi porti sempre un passo più in là, dove ancora non riesco a immaginare.

 

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